Storia,  Storia d'Italia

Camillo Benso conte di Cavour

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Secondogenito di Michele e Adele de Sellon, nasce a Torino il nel 1810. Nell’avito palazzo dominato dalla figura della energica nonna paterna, la marchesa Filippina di Cavour nata de Sales.

Nei suoi primi anni Camillo vive il clima napoleonico espresso dal principe Camillo Borghese, presso il quale il marchese Michele ottenne incarichi di fiducia. Ma Camillo crebbe poi nel clima più angusto della Restaurazione, di fronte al quale suo padre rivelava un’adattabilità estrema.

Nell’aprile del 1820 fu fatto entrare nella Regia Militare Accademia, dove fu “protetto” dal comandante della scuola, il cavalier Saluzzo, amico di famiglia; una certa insofferenza per la disciplina impostagli, che non escludeva un forte desiderio di affermarsi, creò non lievi problemi all’allievo ed ovviamente anche ai superiori.

Affiorano subito gli elementi contrastanti del suo carattere: un eccesso di volontà e di voglia di affermazione; un’espressione amabile, gaia, dolcemente luminosa che ne costituiva il fascino.

Negli studi militari non è favorito da quelli che furono sempre in lui: un forte spirito di contraddizione; un segno di “indipendenza di giudizio, il rifiuto di piegarsi a norme e valori ricevuti. Per questo risultarono a lui più congeniali gli studi di matematica, nei quali rivelò, fin dai quindici, sedici anni, un notevole talento.

Nel 1824 il padre gli ottiene l’iscrizione fra i paggi di corte del principe Carlo Alberto di Carignano. La cosa riesce sgradita a Camillo tanto che manifestò pubblicamente il suodisagio ed in seguito la sua gioia di lasciare quella “livrea da gambero”, ciò provocò l’ira del Carignano che lo mise alla porta.

Carlo Alberto avrebbe voluto anche le sue dimissioni dal grado di sottotenente, (conquistato nell’agosto 1826). Concluse tuttavia il corso in Accademia
dopo di che percorse vari itinerari fra il Piemonte, la Savoia e la Riviera di Ponente, quale ufficiale del genio, addetto a lavori di fortificazione.

Tra il ’27 ed il ’29, pur essendo in servizio, ha la possibilità di compiere brevi soggiorni a Ginevra, ciò gli consente di riprendere più diretti contatti con i parenti e con uno dei centri più vivi della cultura europea. In particolare, gli anni fra il ’26 e il ’29 sono quelli in cui egli rivela tutte le sue inquietudini, ed esprime una finale, accorata protesta contro le critiche mossegli nell’ambito stesso ambito familiare; in una lettera scritta al fratello Gustavo, rifiuta di scusarsi per quelle che egli giudica colpe inesistenti ed afferma che: Non può rinunciare ad un «sentimento innato di dignità morale», per scivolare nell’opportunismo, o fingere dei sentimenti che non provava, camminando «sulle barriere dell’assolutismo».

S’infittivano, nei suoi zibaldoni di quel tempo, le osservazioni polemiche contro ogni passivo conformismo: sul terreno religioso invocava un progressivo arricchimento del cristianesimo, sul terreno politico, rilevava le implicazioni liberali del pensiero dei maggiori economisti della scuola classica. La “sua crisi razionalistica” si accentua quando il moto francese del luglio 1830 viene ad acuire i furori degli ultras da cui era circondato a Torino nello stesso clan familiare.

Contano però anche i contatti avuti con gruppi radicaleggianti a Genova, dove era stato inviato, per servizio, proprio nella primavera del ’30. Frequentò il salotto della “ribelle” Nina Giustiniani, a cui restò legato sentimentalmente per più di quattro anni.

Si sapeva sorvegliato; e comunque le più assidue letture di giornali inglesi e di autori francesi non paiono averlo trascinato allora verso tesi democratiche del tempo. Anzi, egli giunge a respingere con lo stesso impegno sia gli eccessi d’un rinato giacobinismo e quelli d’una “classe aristocratica” che, ben lungi dall’aprire gli occhi, gli pareva “inferocita” , soltanto le classi medie comprendevano, per quanto notava il Cavour, il senso positivo del moto francese.

Disgustato, è deciso a staccarsi dai vili “cortigiani”, chiede pertanto al padre che gli desse modo, lasciato l’esercito, di occuparsi dell’amministrazione dei beni familiari. Fu certamente, il suo, un atteggiamento di rinuncia, non vi è dubbio ma fu anche un gesto che non escludeva le speranze in una “guerre italienne”, in un più vivace appoggio, da parte dei liberali inglesi, alla causa della libertà italiana.

Nel 1832 il padre, temendo forse anche le conseguenze che sarebbero derivate dai rapporti via via instaurati con gruppi liberali francesi, certo sgraditi al nuovo re Carlo Alberto, gli affida l’ auspicato compito agricolo – amministrativo, a Grinzane, presso Alba.

Con questo primo, lavoro economico-sociale, il Cavour esce da uno stato di cupa depressione e di scoraggiamento, ad esso avevano contribuito le repressioni dei tentativi mazziniani del ’31 in essi, pur senza guardare con simpatia ai congiurati, vedeva un sintomo della profonda crisi del regime carlo albertino, debole e crudele

Nel contempo … malgrado le vivacissime puntate anticlericali che costellano il diario e gli zibaldoni giovanili del C. degli anni ’30 – quando Camillo è più illuminista che cristiano – un filone di religiosità laica inizia a muoversi nella sua mente, e lo induce, ad esempio, a biasimare un amico “qui ne yient aucun compte du sentiment religieux”.

Mentre dogmi e sistemi filosofici si esauriscono, restano vivi i problemi dell’etica sociale, in rapporto ai quali il cristianesimo ha ancora una missione da svolgere. Ma non minore è l’interesse per i dibattiti parlamentari, allora in corso, a Parigi e a Londra, e, mentre a Parigi si conferma nel suo indirizzo juste-milieu, a Londra auspica la nascita di un ministero “in grado di riunire tutti i riformisti e i ragionevoli”. Mentre il padre è assorbito da nuovi compiti, come vicario di polizia a Torino.

Cavour torna in patria e Ottiene dal padre l’incarico di amministrare i beni familiari attorno a Leri, nel Vercellese (novembre ’35), e quelli della zia Vittoria, vedova.

In questo nuovo ruolo compie frequenti viaggi in Francia, ed assume il volto dell’uomo d’affari, se non addirittura dello speculatore, giocando su amicizie preziose, come quella di alcuni banchieri ginevrini.

La passione politica, l’entusiasmo “progressista” per le costruzioni ferroviarie, l’ipotesi di una guerra ideologica della “Francia liberatrice di patrie”, lo inducono (nel ’40) a giocare in Borsa, ciò sarà causa di forti perdite che gli costeranno il dissesto; ma questo, risanato dal padre, costituirà per lui una lezione preziosa.

Dopo il ’40, a fronte di tutte le esperienze maturate, in lui la metamorfosi è compiuta è ormai in grado di affermarsi come innovatore agricolo (specie nel campo dei concimi e delle tecniche agricole, ispirate a modelli inglesi) sul giornale dell’Associazione agraria subalpina, arriverà a polemizzare, come “uomo di pratica”, contro i teorici dei “poderi modello”.

Nel ’43, un più lungo soggiorno a Parigi, in quella che considera la “capitale intellettuale” d’Europa gli aveva permesso di rinsaldare i legami con uomini e gruppi a lui più vicini valutare anche il peso di correnti conservatrici.

Per contro, fin dal ’40, aveva valutato, il peso di un nuovo partito, “religieux et libéral”, che prendeva forza nel clero francese.

Nel ’43, giunge a dirsi fiducioso nella “alliance des principes catholiques avec le dogme du progrès social”.

In quest’ottica, non è privo di rilievo il fatto che il problema nazionale italiano venga affrontato direttamente dal Cavour solo nel ’46, in un articolo dal titolo: Des chemins de fer en Italie.

Progredendo nelle proprie riflessioni, Cavour attribuisce i “malheurs de l’Italie” alla “influence politique que les étrangers exercent depuis des
siècles parmi nous”. Le rivalità e “antipatie” tra le varie “fractions de là grande famille italienne” si sarebbero presto attenuate, quando un fitto interscambio più intensi rapporti personali fossero stati instaurati con una rete ferroviaria nazionale.

Nel contempo pone sotto accusa le “passioni demagogiche” e le dottrine “sovversive” della Giovine Italia, rivendica alla corrente moderata (di cui C. Balbo si era fatto portabandiera) il compito di guidare l’Italia verso l’emancipazione.

Nel 1847 Progredendo nella metamorfosi finalmente riesce a stendere in italiano (lingua che usava con fatica) uno scritto sull’influenza che la riforma della politica commerciale inglese, in senso liberista, avrebbe avuto in Europa e in Italia; in alcuni articoli usciti sulla gazzetta della all’Associazione
agraria subalpina pur entrando nel circolo dei liberali moderati dà l’impressione di volersi opporre puntigliosamente alle tesi dei “progressisti”.

Era sostanzialmente difficile, al C. di quegli anni, sfuggire all’immagine (che talvolta lo opprimeva) di un ricco figlio di famiglia, legato al suo clan, ad una vita mondana di aristocratico o di altoborghese (si pensi alla fondazione della Società del Whist, nel 1841), anche se egli emergeva progressivamente, di fronte agli occhi di osservatori esperti, come il ginevrino J.-E. Naville, per una “capacità imprenditoriale” (Romeo, II, 1, p. 185) nella quale si giovava delle molteplici relazioni col mondo francese, ginevrino, ligure-piemontese e savoiardo.

In questi anni di evoluzione pur apparendo, agli occhi di osservatori capaci, dotato di una indubbia “capacità imprenditoriale” nella quale si giovava
delle molteplici relazioni col mondo francese, ginevrino, ligure – piemontese e savoiardo.

Non gli riusciva di sfuggire all’immagine (che talvolta lo opprimeva) di un ricco figlio di famiglia, legato al suo clan, ad una vita mondana di aristocratico o di alto-borghese (si pensi, ad esempio, alla fondazione della Società del Whist, nel 1841), né si può escludere che gli oggettivi e concreti
successi da lui ottenuti nelle iniziative bancarie non suscitassero, in ambienti democraticheggianti, ulteriori sospetti sulle sue inclinazioni alla abile speculazione. Del resto, come non sottolineare i legami da lui contratti con i personaggi più rilevanti (e disinvolti) del mondo finanziario torinese e
ligure?

Si può rilevare infine che le molteplici attività del C., fra banca industria e agricoltura, si traducono in un crescente ampliamento di orizzonti, che comporta, ad un tempo, una più adeguata presa di coscienza dei limiti della politica “liberale” del governo francese (in specie del Guizot, che ne era il principale responsabile), e del crescente contrasto tra le velleità “italianiste” e vagamente riformatrici di Carlo Alberto e l’indirizzo retrivo da lui seguito nella politica interna. Non è possibile fare il liberale, avrebbe scritto nell’ottobre del ’47,al di là del Ticino “et vouloir comprimer tout mouvement en deça de ce fleuve” (al Costa de Beauregard, in Romeo, II, 1, p. 259).

Destava dunque, a conti fatti, diffidenze sia fra i liberali più avanzati, sia fra i fedeli servitori del regime carloalbertino. Abilissimo, Cavour riesce però ad intravvedere lo spiraglio attraverso il quale poter finalmente penetrare in un terreno fin allora precluso, la fondazione, a seguito delle riforme del
30 ott. 1847, di un giornale politico, intitolato Il Risorgimento, espressione del gruppo moderato che faceva capo a Balbo; di fatto, con i suoi articoli, Cavour ne sarebbe presto diventato il vero animatore.

Cavour si dà subito da fare e già nel primo numero, uscito il 15 dicembre, dà grande rilievo al nesso tra risorgimento politico e risorgimento economico, liberalismo e liberismo. Si tenga presente che le teorie da lui propugnate non esprimevano affatto le esigenze dei settori produttivi e del commercio cui giovavano invece le misure protezionistiche. E nel 1848 va ben oltre perché quando ancora Carlo Alberto sta tormentosamente dibattendo con i suoi balordi consiglieri sul da farsi, il Cavour sul Risorgimento (7 febbraio) sottolinea come il re non possa lasciare il suo paese “privo
d’istituzioni deliberative”, quando Firenze e Napoli ormai ne erano state dotate.

Dopo il proclama reale dell’8 febbraio 1848; Cavour pubblicava una serie di articoli sulla legge elettorale, intesi a sciogliere le residue apprensioni dei
conservatori, confutare la tesi di quella Sinistra che aveva di “fondare sulle istituzioni municipali una Costituzione ultra democratica”, va notato al riguardo che mentre per Cavour (che aveva difeso la soluzione costituzionale prima di quasi tutti i leader liberali o democratici) l’autorità monarchica non aveva altro mezzo per rafforzarsi, per Carlo Alberto la concessione si era presentata come un cedimento, anzi quasi come una mezza abdicazione.

A malincuore, il re si affidò al liberali moderatissimi del gruppo del Risorgimento (Balbo avrebbe presieduto il primo ministero costituzionale) e il Cavour sarebbe stato l’anima della commissione elaboratrice d’una legge elettorale, ovviamente moderata.

Cavour aveva dedicato un articolo a dissipare i “vani timori dei sinceri, ma timidi amici del progresso”, il “risorgimento italiano” non sarebbe stato “ostile alla Chiesa”, poiché: era “benedetto da un pontefice”, promosso da “piissimi prìncipi”, sostenuto anche dalla maggior parte del clero; non trovava ostile il patriziato, né impreparati i popoli.

Cavour prospettava così di raccordare le spinte dei diversi, movimenti nazionali di fronte alle esigenze della battagliera Milano, Cavour sarebbe divenuto difensore della sua Torino “monarchica”. Non si dimentichi che, col famoso articolo cavouriano su “L’ora suprema della monarchia” (del 23 marzo), il Risorgimento non si era lasciato sopravanzare dai giornali democratici nell’esortare Carlo Alberto ad una “guerra immediata”.

«Milano è assediata e ad ogni costo bisogna andare a soccorrerla».

L’articolo si concludeva con un caratteristico appellò all’Inghilterra, “primogenita della libertà”, perché non assistesse passiva alla lotta per la libertà dei popoli e significativa l’omissione d’ogni accenno a un aiuto francese.

Anche dopo l’inizio della guerra, le questioni interne non lo distolgono da un’attenta analisi comparativa tra le situazioni politiche e istituzionali dei vari paesi liberi d’Europa .

Si rallegra del trionfo (30 giugno) del “partito dell’ordine” in Francia e più tardi anche a grande maggioranza del suo candidato, Luigi Bonaparte,
Cavour è certo che questi riuscirà a «spegnere i germi d’anarchia che da un anno travagliano quel paese».

In seguito gli scacchi militari, la crisi generale del piano di guerra regia e federale, che svelarono l’insufficienza degli uomini e delle idee guelfo moderate, non portarono Cavour a dubitare delle strutture portanti dello Stato sabaudo ed in specie dell’esercito.

Fin dal 24 apr. 1848, sul Risorgimento, criticava però i mancati cambiamenti nella composizione dello Stato Maggiore dell’esercito, entrò poi alla Camera, come deputato di un collegio di Torino, con le elezioni suppletive del giugno.

Dopo l’armistizio Salasco (5 agosto) recò un contributo prezioso, sul piano finanziario, all’opera del ministero che cercava di uscire dalla stretta, coi decreti coi quali si stimolò la fusione tra le banche di Genova e di Torino. Ma, spostandosi, con l’avvento al potere dei democratici, più a destra ,verso la fine del ’48 si trovò investito da. una campagna di vera e propria denigrazione da parte degli avversari.

La sua candidatura cadde, nelle elezioni del gennaio ’49. Cavour vide in La Marmora l’unico possibile “salvatore”, prima sul terreno militare, poi anche su quello della resistenza all’offensiva rivoluzionaria, che pareva prender consistenza all’indomani della sconfitta di Novara con la rivolta di Genova (domata appunto da La Marmora nell’aprile ’49). Il furore antigiacobino avvicinò più che mai Cavour alla Destra piemontesista.

Rientrato alla Camera per il collegio di Torino I con le nuove elezioni del luglio ’49, riprese animo. Rifiutò una missione diplomatica a Londra, propostagli dall’Azeglio, perché gli parve di «essere più utile al paese in Patria e nel Parlamento che in Londra». Nel novembre dichiarò che era possibile evitare lo scioglimento della Camera; ma tornò poi a considerare utopistica la conciliazione che aveva desiderato e lo espresse sul Risorgimento.

Nella nuova Camera ebbe ruoli via via più rilevanti.

Il 19 apr. 1851 riesce a sbalzar di sella Giovanni Nigra ed assume l‘interim delle Finanze. Diede subito una misura della sua abilità e della sua competenza.

La sua carriera stava per iniziare!