Biografia

Ricordare Adriano Morando per me non è davvero facile perché quando si vuole parlare di una grande figura umana e professionale, di un caro ed indimenticabile amico di lunga data, si rischia di cadere nella banalità e nella retorica.

In questa breve introduzione cercherò di mettere in luce più la figura lavorativa che quella di amico, coerentemente con i contenuti di questo libro, consentendomi però anche qualche considerazione personale. Conobbi Adriano Morando nel lontano ottobre del 1985, quando anch’io fui assunto in una delle più note aziende italiane del settore elettromeccanico, Il Tecnomasio Italiano Brown Boveri (TIBB). In questa ditta lui mi aveva preceduto di qualche mese, dopo una sua prima esperienza di lavoro presso la società di Ingegneria Borghi & Baldo.

Dopo colloqui di lavoro con l’allora massimo esponente dello sviluppo delle trazione elettrica ferroviaria in Italia, l’Ingegner Lanzavecchia, ci trovammo entrambi al Dipartimento di Elettronica, che era rivolto principalmente allo studio e alla progettazione di convertitori elettronici per la trazione elettrica ferroviaria.

Laureato in Ingegneria Elettrotecnica presso il Politecnico di Milano, Adriano, oltre ad occuparsi di azionamenti elettrici per la trazione ferroviaria, aveva già individuato come maggiori campi di interesse la compatibilità elettromagnetica e i fondamenti teorici dell’elettromagnetismo. Negli anni successivi, secondo il parere condiviso da molti, divenne un grande studioso di storia delle scienze elettriche e dell’opera scientifica di James Clerk Maxwell.

Cominciò così, nel 1985 la mia straordinaria ed indimenticabile avventura di interazione culturale, emotiva e di vita con Adriano. Tra i suoi primi lavori in Tecnomasio, elaborò, sulla base di un’idea dell’Ing. Lanzavecchia, tutta la parte teorico-matematica di un particolare ed innovativo convertitore per l’alimentazione delle linee elettriche ferroviarie. Di tale progetto io seguii poi la realizzazione  fisica e sperimentazione in laboratorio. Adriano amava molto il suo lavoro in Tecnomasio, ma contemporaneamente si dedicava anche allo studio, con forte impegno e continua dedizione. Sostanzialmente Adriano non era un “trazionista“, ossia non era orientato agli aspetti più sperimentali, ma all’elaborazione teorica di progetti di trazione, facilitato in ciò da una dimestichezza sorprendente con le formule matematiche.

Per meglio comprendere il suo lavoro bisogna ricordare che in quegli anni non erano ancora disponibili programmi informatici dedicati per la progettazione industriale, ma dovevano essere sviluppati appositamente all’interno dell’Azienda per il singolo progetto. Pertanto, Adriano si occupava dell’elaborazione teorica dei progetti che poi venivano affidati ad ingegneri informatici per la realizzazione degli specifici programmi di calcolo per procedere, quindi, alla successiva fase sperimentale. Tra i suoi ultimi lavori in Tecnomasio, che lasciò nel 1990, bisogna ricordare che contribuì alla progettazione iniziale dei prototipi del primo treno italiano ad alta velocità, il progenitore dell’attuale Frecciarossa. A lui, in collaborazione con la Fiat Ferroviaria, si deve il primo modello matematico di un treno destinato all’alta velocità (attuale ETR500).

Tanti anni passati al suo fianco, prima come collega di lavoro in un rapporto di stretta collaborazione e poi come amico fraterno, fanno riemergere tanti ricordi di lavoro e di vita.

In un’epoca in cui i computer erano ai primordi, sulla sua scrivania di lavoro trovavano posto solo fogli di carta, dove sviluppava il suo lavoro con una calligrafia molto ordinata e precisa, come testimoniano gli appunti manoscritti allegati a questo libro che risalgono agli anni del Tecnomasio e testimoniano la sua passione per l’attività intellettuale.

Nelle riunioni di lavoro aveva l’attitudine  a guidare il gruppo ed animare la discussione, grazie anche  a capacità dialettiche non comuni. Era insomma una persona unica, un esempio, che con passione cercava di trasmettere a tutti noi suoi colleghi le sue profonde conoscenze, lavorando sempre con un entusiasmo che riusciva spesso ad essere contagioso.

Nel 1990 intraprese la strada, a lui congeniale, dell’insegnamento accademico, al Politecnico di Milano, attività che gli avrebbe consentito di esprimere al meglio le sue caratteristiche e le sue capacità di Ingegnere fisico-matematico. Il suo entusiasmo per questo nuovo lavoro lo portò sia a innovare i metodi di insegnamento, proponendo  una diversa didattica che riduceva le distanze tra docente e studente, sia a realizzare importanti e validi lavori con i suoi collaboratori. Esemplificativa del rapporto instaurato con i suoi studenti è la lettera di saluto inviata loro al termine della sua ultima lezione al Politecnico.

Mi ritengo molto fortunato per aver conosciuto Adriano e mi sento profondamente in debito con lui per i molti consigli e insegnamenti di lavoro che mi ha elargito con generosità e vera e profonda amicizia. Penso quindi che tutti coloro che lo abbiano conosciuto ed apprezzato manterranno di lui un grande ricordo, accanto ad un vuoto difficile da colmare.

Vincenzo Cascone

Science et philosophie, scrive Federigo Enriques, un pensatore molto caro ad Adriano Morando, «ne se laissent séparer qu’à un point de vue abstrait». Per Enriques però anche la separazione tra ricerca scientifica, in quanto tale, e storia della scienza è comprensibile soltanto da un punto di vista astratto. Adriano condivideva pienamente queste idee e s’impegnava in prima persona in questo senso, a dispetto di tutte le difficoltà e di tutti i pregiudizi, da una parte e dall’altra. In questo egli era senz’altro un ingegnere anomalo, “strano”, e questa stranezza gli costò l’accettazione infastidita, quando non l’aperta ostilità del mondo accademico, che non riusciva a capire questi suoi interessi, così “lontani” dalla sua professione, almeno com’è intesa oggi. Ma sono proprio questi vasti interessi, questo rifiuto d’innalzare rigidi steccati tra i saperi, questo disprezzo per ogni pregiudizio, oltre naturalmente alla sua personalità generosa e sensibile, che facevano di Adriano un uomo eccezionale.

Il legame tra scienza e filosofia era dunque fondamentale per Adriano: la filosofia, egli sosteneva, non può non tenere conto dei risultati delle scienze, se non vuole inaridirsi e diventare mera chiacchiera, anzi, smettere addirittura di essere filosofia, e la scienza deve saper riconoscere le componenti filosofiche in essa presenti, se non vuole ridursi a mero calcolo.

Chiunque abbia assistito ad una lezione o a una conferenza di Adriano non può non essere rimasto ammirato dalla sorprendente padronanza degli strumenti fisico-matematici che gli consentiva di proporre sofisticati modelli matematici per risolvere i più ardui problemi tecnici e, nel contempo, la sua preoccupazione filosofica, la sua capacità di “leggere” le formule, mostrandone con lucidità e chiarezza gli elementi concettuali, il significato “filosofico” profondo, che si nasconde dietro l’apparente aridità, e di farle comprendere e farne cogliere la “magia” anche a chi non era certo in grado di seguirlo nelle complesse dimostrazioni.

Non meno rilevante era per lui il legame tra la scienza e la sua storia. La storia della scienza non era però per Adriano, come per molti storici di formazione scientifica, una semplice sequela di risultati, un’esaltante carrellata di successi. Con una sicurezza ed una documentazione che lasciava sbigottito anche chi era del mestiere, era capace di far rivivere davanti all’uditorio le epoche storiche nelle quali quelle scoperte erano state fatte, quei risultati scientifici erano stati raggiunti, mostrandone gli stretti legami, senza peraltro cedere mai ad un facile, quanto sterile parallelismo. La storia, d’altro canto era una delle sue passioni più vive.

Adriano era tutto questo, ma non solo. Come non ricordare la sua dedizione senza limiti al lavoro, il profondo senso del dovere, la generosità straripante con cui svolgeva la sua attività di docente, l’indistruttibile convinzione che l’insegnamento universitario fosse una missione sacra, che richiederebbe delle personalità all’altezza di questo compito, come le figure di ingegneri e di scienziati del passato ai quali egli ha dedicato pagine mirabili per rigore e sensibilità. Basti ricordare qui, per tutti, i ritratti del venerato James Clerk Maxwell e di Ercole Bottani.

Ancora non basta. Bisogna accennare ancora alle sue passioni letterarie, soprattutto per i grandi romanzieri francesi, al suo fanciullesco amore per l’arma della cavalleria, alla sua passione civile, venata ormai di amara disillusione. Insomma Adriano era un uomo d’altri tempi. Un uomo, com’egli stesso amava dire, nato in un’epoca sbagliata. Temo che di epoche “giuste” non ve ne siano mai state, ma certo in questi tempi meschini Adriano era un pesce fuor d’acqua.

Dell’amico prezioso preferisco tacere, per pudore, e mi ripeto le parole di Benedetto Croce, un pensatore che certo Adriano non amava, parole che aiutano, per quel che possono: «delle persone care perdute ci resta tutto quello che ci hanno dato, ma continuano in noi una vita ideale e senza sofferenze, in noi che ancora soffriamo».

Renato Pettoello